Su questo personaggio pochissimi sono i dati sicuri e molti quelli leggendari o poco chiari. Le notizie certe riguardano l'inizio del pontificato, 473, e la sua morte, 9 febbraio 484, come si può rilevare da una iscrizione sepolcrale. Per il resto la leggenda ha molto lavorato creando confusioni da cui non è facile districarsi.
Altri santi di nome Felice furono venerati nell'Italia Centrale (Felice ed Adautto a Roma) e Meridionale (Felice di Thibiuca a Venosa); nella stessa Nola e regioni limitrofe fu oggetto di grandissimo culto un s. Felice, prete (v.), per cui gli agiografi medievali confusero gli uni con gli altri dando origine, nelle passiones, a curiosi equivoci. Nacquero sdoppiamenti di persone: a Nola, infatti, si parlò di un Felice protovescovo, distinto dal più famoso prete.
Di questo presunto primo vescovo si scrisse anche una passio, in cui si narra che Felice, già all'età di quindici anni, dimostrò miracolose virtù; compì viaggi raggiungendo la Persia; ritornato a Nola convertì lo stesso governatore Archelao che intendeva condannarlo perché cristiano. Poi, durante l'impero di Valeriano, fu dal preside Marciano condannato, assieme ad altri trenta, alla decapitazione (15 novembre 259). Il prete Elpidio nascose il corpo in un pozzo su cui fu in seguito costruita una chiesa. Queste notizie passarono poi nei diversi martirologi: il lionese dell'806 lo commemora il 27 agosto; Floro ed Adone il 15 novembre e il Martirologio Romano riprende quest'ultima data.
In realtà, il protagonista di questa passio, questo Felice, vescovo di Nola nel III sec., non è mai esistito: si tratta quindi di uno sdoppiamento del Felice prete, divenuto, negli scritti leggendari, vescovo e martire. Il primo vescovo di questo nome è invece certamente vissuto verso la fine del sec. V (da molti autori è chiamato Felice II o junior); ma morì il 9 febbraio 484. Nella diocesi di Nola, Felice si festeggia al 15 novembre.
domenica 22 febbraio 2009
Sant'Alferio Pappacarbone
Nato a Salerno nel 930 dalla nobile famiglia dei Pappacarbone, servì per lungo tempo Guaimaro, principe della sua città. Settantenne, nel 1002, era a capo di una legazione diretta in Francia al re Enrico II, per ottenerne la protezione sul suo signore e sul suo principato. Essendosi ammalato gravemente prima di valicare le Alpi, chiese ospitalità al monastero di S. Michele della Chiusa e, mentre i suoi compagni proseguirono il loro cammino, fece voto di farsi monaco se fosse guarito. Infatti, ristabilitosi, lasciò il mondo per rivestire l'abito benedettino, e seguì a Cluny s. Odilone incontrato nel convento della Chiusa.
Alcuni anni dopo, il principe di Salerno chiese al grande abate di Cluny il suo antico ministro per impiegarlo nella riforma dei monasteri del salernitano, ma, dopo un tentativo poco fruttuoso, Alferio si ritirò con due compagni nella Cavea metiliana o “valle Metilia”, presso Salerno (nell'attuale Cava dei Tirreni), per menarvi vita eremitica in preghiera e penitenza. In seguito vi costituì, dedicandolo alla S.ma Trinità, un monastero per dodici discepoli, destinato a diventare uno dei principali centri della riforma monastica. La comunità fu organizzata sul tipo di quella di Cluny e secondo il suo spirito. Fra i discepoli del santo dobbiamo ricordare il mercante di Lucca s. Leone e il monaco Desiderio, che più tardi salirà al trono pontificio col nome di Vittore III e tesserà l'elogio di Alferio nel terzo libro dei suoi Dialoghi. Il monastero godette della particolare benevolenza di Guaimaro, il quale con decreto del 1025 ne riconosceva l'esistenza, concedendo un largo tratto di terra intorno e piena libertà di governo, compresa quella di eleggere l'abate in seno alla comunità senza alcuna ingerenza di secolari.
Alferio morì nel 1050, il 12 aprile, giorno in cui è festeggiato, dopo aver designato Leone di Lucca suo successore e aver revocato la norma stabilita di non accogliere nel suo monastero più di dodici monaci.
I suoi undici immediati successori sono venerati con culto pubblico riconosciuto dalla Chiesa; come santi: Leone, Pietro e Constabile, insieme col santo fondatore Alferio, con decreto di Leone XIII del 1893 ; come beati: Simeone, Falcone, Marino, Benincasa, Pietro II, Balsamo, Leonardo e Leone II, con decreto di Pio XI del 1927.
Alcuni anni dopo, il principe di Salerno chiese al grande abate di Cluny il suo antico ministro per impiegarlo nella riforma dei monasteri del salernitano, ma, dopo un tentativo poco fruttuoso, Alferio si ritirò con due compagni nella Cavea metiliana o “valle Metilia”, presso Salerno (nell'attuale Cava dei Tirreni), per menarvi vita eremitica in preghiera e penitenza. In seguito vi costituì, dedicandolo alla S.ma Trinità, un monastero per dodici discepoli, destinato a diventare uno dei principali centri della riforma monastica. La comunità fu organizzata sul tipo di quella di Cluny e secondo il suo spirito. Fra i discepoli del santo dobbiamo ricordare il mercante di Lucca s. Leone e il monaco Desiderio, che più tardi salirà al trono pontificio col nome di Vittore III e tesserà l'elogio di Alferio nel terzo libro dei suoi Dialoghi. Il monastero godette della particolare benevolenza di Guaimaro, il quale con decreto del 1025 ne riconosceva l'esistenza, concedendo un largo tratto di terra intorno e piena libertà di governo, compresa quella di eleggere l'abate in seno alla comunità senza alcuna ingerenza di secolari.
Alferio morì nel 1050, il 12 aprile, giorno in cui è festeggiato, dopo aver designato Leone di Lucca suo successore e aver revocato la norma stabilita di non accogliere nel suo monastero più di dodici monaci.
I suoi undici immediati successori sono venerati con culto pubblico riconosciuto dalla Chiesa; come santi: Leone, Pietro e Constabile, insieme col santo fondatore Alferio, con decreto di Leone XIII del 1893 ; come beati: Simeone, Falcone, Marino, Benincasa, Pietro II, Balsamo, Leonardo e Leone II, con decreto di Pio XI del 1927.
Sant' Amato di Nusco
Pur non essendo abbastanza antica (1461), la sua ‘Vita’ fu scritta da Francesco da Ponte, essa non è molto attendibile. Amato nacque a Nusco, il terzo Comune più alto della provincia di Avellino (mt. 914), che sorge su un monte isolato della catena appenninica irpina, tra le valli dell’Ofanto e del Calore e per la sua posizione panoramica è definito “balcone dell’Irpinia”.
La sua nascita avvenne intorno al 1003, in una famiglia benestante, divenne sacerdote molto giovane e nel 1048 sarebbe stato consacrato primo vescovo della città, dall’arcivescovo di Salerno Alfano I.
Nusco abitata già in epoca molto antica, si sviluppò probabilmente in epoca longobarda, presso un castello, attorno al quale sant’Amato vescovo, raggruppò gli abitanti dei villaggi del circondario.
Restaurò ed edificò alcune chiese, tra cui la cattedrale dedicata al protomartire S. Stefano; fece di tutto per soccorrere i poveri, affidò ai Benedettini il monastero di S. Maria in Fondigliano, posto a 5 km da Nusco e soppresso poi nel 1460, e dopo aver devoluto i suoi beni alla Chiesa, morì il 30 settembre 1093.
Sul suo sepolcro avvennero numerose guarigioni, che gli procurarono il culto di santo, il suo successore Ruggero gli dedicò per questo una chiesa.
Dopo aver dimostrato l’autenticità del suo testamento, si è potuto fissare al 30 settembre 1093 la data della sua morte, in contrasto con l’opinione dei monaci benedettini di Montevergine (AV), che volendolo classificare ad ogni costo, come discepolo del loro fondatore s. Guglielmo da Vercelli (1085-1142), non esitarono a spostare la data della sua morte al 31 agosto 1193, quindi 100 anni dopo.
Patrono della città di Nusco è invocato contro i terremoti, calamità naturale ricorrente dei monti irpini.
Il santo lo si celebra al 30 settembre.
San Filippo Smaldone
L’arco di vita di Filippo Smaldone, che si stende dal 1848 al 1923, fu contrassegnato da decenni particolarmente densi di tensioni e contrasti nei vari campi e settori della vita della società italiana, specialmente nella sua patria d’origine, e della stessa Chiesa. Nacque a Napoli il 27 luglio del 1848, l’anno dei famosi «moti di Napoli ». Quando egli era ragazzo di dodici anni, la monarchia borbonica, alla quale era fortemente attaccata la sua famiglia, conobbe il suo rovesciamento politico, e la Chiesa, con la conquista di Garibaldi, conobbe momenti drammatici con l’esilio del suo Cardinale Arcivescovo Sisto Riario Sforza. Non erano tempi certamente favorevoli e ben promettenti per il futuro, specialmente per la gioventù, che subiva il forte travaglio del nuovo corso socio-politico-religioso. Ebbene, fu in quella fase di crisi istituzionale e sociale che Filippo prese la decisione irrevocabile di ascendere al sacerdozio e di legarsi per sempre al servizio della Chiesa, che vedeva osteggiata e perseguitata. E, mentre era ancora studente di filosofia e di teologia, volle già dare un’impronta di servizio caritatevole alla sua carriera ecclesiastica dedicandosi all’assistenza di una categoria di soggetti emarginati, che erano particolarmente numerosi e fin troppo abbandonati in quei tempi a Napoli: i sordi.
In questa sua intensa attività benefica si applicò e si distinse molto più che negli studi, per cui ebbe scarso successo in alcuni esami premessi alla ricezione degli ordini Minori; ciò provocò il suo assaggio dalla arcidiocesi di Napoli a quella di Rossano Calabro, il cui Arcivescovo Mons. Pietro Cilento lo accolse generosamente in considerazione della sua bontà e del suo ottimo spirito ecclesiastico. Nonostante il cambio canonico di diocesi, — che peraltro durò solo pochi anni, perché in seguito, nel 1876, fu reincardinato a Napoli — con licenza del suo nuovo Arcivescovo, restò a Napoli, dove proseguì gli studi ecclesiastici sotto la guida di uno dei Maestri del celebre Almo Collegio dei Teologi, mentre proseguiva con immutata dedizione la sua opera di assistenza ai sordi. Mons. Pietro Cilento, che lo stimava, volle ordinarlo personalmente a Napoli suddiacono il 31 luglio 1870. Il 27 marzo 1871 fu ordinato diacono e finalmente, il 23 settembre 1871, con dispensa di alcuni mesi dall’età canonica dei 24 anni richiesti, fu ordinato sacerdote a Napoli con indicibile gaudio del suo animo buono e mite.
Appena sacerdote, iniziò un fervido ministero sacerdotale come assiduo catechista nelle cappelle serotine, che da fanciullo aveva frequentato con profitto, come collaboratore zelante in varie parrocchie, specialmente in quella di Santa Caterina in Foro Magno, come visitatore assiduo e ricercato di ammalati in cliniche, in ospedali e in case private. La sua carità raggiunse l’acme della generosità e dell’eroismo in occasione di una forte pestilenza a Napoli, dalla quale restò anche lui colpito e portato in fin di vita, e dalla quale fu guarito dalla Madonna di Pompei, che divenne la sua devozione prediletta per tutta la vita. Ma la cura pastorale privilegiata di Don Filippo Smaldone era quella per i poveri sordi, ai quali avrebbe voluto dedicare le sue energie con criteri più idonei e convenienti, diversi da quelli che vedeva applicati dagli addetti a quel settore educativo. Gli causava, infatti, grande pena che, per quanti sforzi e tentativi si facessero, l’educazione e la formazione umano-cristiana di quegli sventurati, equiparati ai pagani, di fatto, rimanevano per lo più frustrate.
Ad un certo punto, forse per dare una espressione più diretta e concreta al suo sacerdozio, pensò di partire missionario nelle missioni estere. Ma il suo confessore, che l’aveva guidato costantemente fin dall’infanzia, gli fece conoscere che la sua «missione » era fra i sordomuti di Napoli. Da allora si tuffò interamente in questo tipo di apostolato. Lasciò la casa paterna e andò a vivere stabilmente con un gruppo di sacerdoti e laici, che intendevano istituire una Congregazione di Preti Salesiani senza peraltro venirne mai a capo. Col tempo acquistò una grande competenza pedagogica nel settore e gradatamente andò progettando di realizzare lui stesso, se così al Signore fosse piaciuto, una istituzione stabile e idonea per la cura, l’istruzione e l’assistenza umana e cristiana dei sordi. Il 25 marzo 1885 partì per Lecce per aprire, insieme con Don Lorenzo Apicella, un istituto per sordi. Vi condusse alcune « suore », che egli era andato formando in precedenza, e gettò così le basi della Congregazione delle Suore Salesiane dei Sacri Cuori, che, benedetta e largamente sostenuta dai Vescovi di Lecce, Mons. Salvatore Luigi dei Conti di Zola e Mons. Gennaro Trama, ebbe una rapida e solida espansione. All’istituto di Lecce, con sezioni femminile e maschile, che ebbe sedi sempre più ampie per il crescente numero degli assistiti fino all’acquisto del celebre ex-convento delle Scalze, che divenne la sede definitiva e Casa Madre, fece seguito nel 1897 quello di Bari.
Poiché il cuore compassionevole del sacerdote Smaldone non sapeva dire di no alle richieste di tante famiglie povere, ad un certo punto cominciò ad ospitare, oltre le sorde, anche le fanciulle cieche e le bambine orfane ed abbandonate. Né dimenticava i bisogni umani e morali della gioventù in genere. Aprì, infatti, diverse case con annesse scuole materne, con laboratori femminili, con pensioni per studentesse, tra le quali una anche in Roma. Durante la sua vita, l’Opera e la Congregazione, nonostante le dure prove, cui andò soggetta sia dall’esterno sia dall’interno medesimo, conobbero un discreto allargamento e consolidamento. A Lecce dovette sostenere una furibonda lotta da parte di una Amministrazione Comunale laica e avversa alla Chiesa. All’interno poi conobbe l’amarezza di una delicata e complessa vicenda di secessione da parte della prima Superiora Generale, che provocò una lunga Visita Apostolica. Fu soprattutto in questi due gravi frangenti che rifulsero le virtù esimie dello Smaldone, ed apparve che la sua fondazione era voluta da Dio, il quale purifica con la sofferenza i suoi figli migliori e le opere nate nel suo nome. Per circa un quarantennio Don Filippo Smaldone fu sempre sulla breccia senza tirarsi mai indietro, prodigandosi in tutti i modi per sostenere materialmente ed educare moralmente i suoi cari sordi, verso i quali aveva affetto e cure di padre, e per formare alla vita religiosa perfetta le sue Suore Salesiane dei Sacri Cuori.
A Lecce, oltre alla universale benemerenza come direttore dell’Istituto e fondatore delle Suore Salesiane, ebbe anche quella di un intenso, molteplice ministero sacerdotale. Fu assiduo e stimato confessore di sacerdoti e seminaristi, confessore e direttore spirituale di diverse comunità religiose, fu fondatore della Lega Eucaristica dei Sacerdoti Adoratori e delle Dame Adoratrici, fu Superiore della Congregazione dei Missionari di San Francesco di Sales per le missioni popolari. Non per nulla fu decorato della Croce pro Ecclesia et Pontifice, annoverato tra i canonici della cattedrale di Lecce, decorato da una Commenda dalle Autorità civili. Finì i suoi giorni a Lecce, sopportando con ammirata serenità, una diuturna malattia diabetica complicata da disturbi cardiocircolatori e da generale sclerosi. Si spense santamente alle ore ventuno del 4 giugno 1923, dopo aver ricevuto tutti i conforti religiosi e la benedizione dell’Arcivescovo Trama, attorniato da diversi sacerdoti, dalle sue Suore e dai sordi, all’età di 75 anni. È stato beatificato da Giovanni Paolo II il 12 maggio 1996.
E stato canonizzato dal papa Benedetto XVI il 15 ottobre 2006, a Roma in Piazza san Pietro.
Beato Tommaso Maria Fusco
Qualcuno gli aveva predetto che avrebbe dovuto trangugiare un sacco di amarezze, ma sicuramente neanche lui si sarebbe immaginato quante e, soprattutto, da parte di chi. Nasce il 1° dicembre 1831 a Pagani, in provincia di Salerno, proprio mentre in Italia, e soprattutto nel Meridione, è tutto un fermento di indipendentismo che alimenta rivoluzioni e disordini. E’ il settimo degli otto figli di una famiglia agiata e molto in vista: suo papà è farmacista, sua mamma una nobildonna, ma se ne vanno troppo presto, tanto che a 10 anni è già orfano di entrambi i genitori. Nel 1839 a Pagani si festeggia solennemente la canonizzazione di Alfonso Maria de’ Liguori: “sarò prete anch’io”, promette a se stesso e agli altri il bambino che ha solo 8 anni. Le prime difficoltà nascono proprio in casa, dove il fratello maggiore e uno zio paterno sono già preti, perchè due vocazioni in una casa sono ritenute più che sufficienti. Senza contare che su di lui si concentrano le speranze per la continuità della dinasta e l’amministrazione dell’ingente fortuna di famiglia. E’ lui a vincere questo braccio di ferro con una parte dei suoi famigliari: a 16 anni entra in seminario e a 24 anni è ordinato sacerdote. Pochi giorni dopo ha già aperto in casa sua una scuola privata, mentre in una vecchia confraternita istituisce una “cappella serotina” come luogo di meditazione, preghiera ed istruzione religiosa per giovani e uomini di ogni grado e condizione sociale. Senza volerlo, il giovane prete con queste prime due istituzioni traccia le linee portanti del suo sacerdozio. Ben volentieri lo annoverano tra i Missionari nocerini, impegnati nelle missioni al popolo, perché ha facilità di parola e chiarezza di esposizione. E in questa veste percorre in lungo e in largo i paesi, anche i più sperduti, del Cilento e dell’Irpinia. Fino a quando decide di “mettersi in proprio”, fondando nel 1862 la “Compagnia dell’Apostolato Cattolico del Preziosissimo Sangue di Gesù Cristo”: ai sacerdoti che vi aderiscono chiede non solo di predicare le missioni al popolo, ma anche di propagandare la devozione al Sangue di Gesù e di fondare in ogni parrocchia visitata la Pia Unione del Preziosissimo Sangue. Esattamente 10 anni dopo un’altra intuizione e una seconda opera di carità urgente: la Congregazione delle Figlie della Carità del Preziosissimo Sangue, che vuole in grado di riflettere “la più viva immagine d quella divina carità con cui il sangue fu sparso”. A loro affida l’educazione, l’istruzione e il mantenimento delle bambine orfane, ma l’inizio, comune a tutte le opere di Dio, è contrassegnato dall’umiltà e dalla piccolezza del granellino di senape: appena tre suore e sette orfane, al cui mantenimento deve provvedere personalmente lui. “Ha scelto il titolo del Preziosismo Sangue? Ebbene preparati a bere un calice amaro”, gli profetizza il suo vescovo. Profezia che si avvera quando due sacerdoti rivali, a dimostrazione che l’invidia e la gelosia sono di casa anche nelle sacrestie, costruiscono a suo danno un castello di accuse infamanti e vergognose. Sente tutta l’amarezza e il peso di questa situazione, che durerà per anni e anni, fino a quando i calunniatori dovranno confessare pubblicamente la loro malignità e il Tribunale ecclesiastico lo proclamerà del tutto innocente. Ma, come speso accade, le sofferenze morali finiscono per avere anche ripercussioni sul fisico e don Tommaso Maria Fusco, muore prima del compimento dei 60 anni il 24 febbraio 1891, perdonando chi gli aveva procurato tanto dolore. Il 7 febbraio 2001 Papa Giovanni Paolo II° lo ha proclamato beato e ad oggi sembra abbastanza vicina la data della sua canonizzazione.
Giuseppe Moscati
Il santo Giuseppe Moscati nacque a Benevento il 25 luglio 1880 da nobile famiglia. Seguendo gli spostamenti del padre, di professione magistrato, visse per alcuni anni ad Ancona e poi, dal 1888, a Napoli.
Studiò presso il liceo “Vittorio Emanuele”, successivamente, nel 1897, iniziava gli studi universitari presso la facoltà di medicina. Il 4 agosto 1903 conseguì la laurea con pieni voti e con diritto alla pubblicazione della tesi. Cominciò la carriera ospedaliera nell’Ospedale degli Incurabili a Napoli presentandosi, sin da allora modello integerrimo di medico cosciente del suo dovere professionale e della sua missione sublime accanto alla sofferenza umana. Si dedicò contemporaneamente all’insegnamento, divenendo assistente ordinario nell’istituto di Chimica Fisiologica nel 1908, conseguendo la libera docenza nel 1911.
Iniziò così un’intesa attività scientifica e cattedratica, con l’insegnamento di “Indagini di laboratorio applicati alla chimica” e di “Chimica applicata alla medicina”. Vince il concorso di Primario negli Ospedali Riuniti di Napoli, mentre nel 1922 consegue una seconda libera docenza in Clinica Medica Generale. Durante tutti gli anni che vanno dal 1903 alla sua morte (1927), Giuseppe Moscati dedicò tutto se stesso alla ricerca scientifica con numerose relazioni a Congressi scientifici in Italia e all’estero, contemporaneamente si dedicava, con grande generosità e con nobile carità, al servizio ospedaliero nell’assistenza gratuita dei malati più bisognosi.
Uomo di fede e di preghiera, morì improvvisamente, lasciando grande rimpianto tra il popolo, il 12 aprile 1927.
La sua memoria liturgica si celebra nel giorno della morte.
Cosa dire di questo Beato? Crediamo sia importante ricordare che è un laico, una figura di cristiano impegnato, che come i Santi e i Beati nel 1975, esprime la radicalità di vita di fede, che è luogo della santificazione. Abbiamo detto un cristiano impegnato, uomo di fede, di scienza e di carità. Anche questa volta i due pilastri sono l’amore a Dio e l’amore al prossimo, che per il beato Moscati vuol dire ricerca del bene per l’uomo anche nella sua professionalità. Altro elemento che colpisce di questo “medico santo” è il fatto che è "quasi a noi contemporaneo", così infatti dirà Paolo VI nella sua omelia; ma ascoltiamola nei suoi tratti essenziali:
"Chi è colui, che viene proposto oggi all’imitazione e alla venerazione di tutti? È un Laico, che ha fatto della vita una missione percorsa con autenticità evangelica, spendendo stupendamente i talenti ricevuti da Dio. È un Medico, che ha fatto della professione una palestra di apostolato, una missione di carità, uno strumento di elevazione di se, e di conquista degli altri a Cristo salvatore. È un Professore d’Università, che ha lasciato tra i suoi alunni una scia di profonda ammirazione non solo per l’altissima dottrina, ma anche e specialmente per l’esempio di dirittura morale, di limpidezza interiore, di dedizione assoluta data dalla Cattedra! È un Scienziato d’alta scuola, noto per i suoi contributi scientifici di livello internazionale, per le pubblicazioni e i viaggi, per le diagnosi illuminante e sicure, per gli interventi arditi e precorritori! [...] La figura del Professor Moscati conferma che la vocazione alla santità è per tutti, anzi è possibile a tutti. [...] E la Chiesa non si stanca di ripetere questo invito nel corso dei secoli, e ancora l’ha ribadito fermamente a noi uomini del XX secolo".
Dopo aver ricordato l’insegnamento del Concilio (Lumen Gentium, 40), prosegue dicendo:
"E’ questo il punto fermo, che certamente sarà da ricordare, a conclusione dell’Anno Santo - che è stato ed è tutto un solenne invito alla santità e alla riconciliazione con Dio e con i fratelli - e a coronamento dei vari Beati e Santi, i cui esempi ci hanno allietato, confusi, spronati, entusiasmati, nel conoscerli, nell’esaltarli, nel venerarli. La vita cristiana deve e può essere vissuta in santità!".
Anche noi, su queste parole del Santo Padre, concludiamo questo cammino sulle orme dei Beati e Santi elevati agli onori degli altari nell’Anno Santo 1975.
Sant'Alfonso Maria De Liguori
Alfonso Maria de Liguori - missionario, fondatore della Congregazione del Santissimo Redentore (C. Ss. R.), vescovo, dottore della Chiesa, patrono del confessori e dei moralisti - nacque a Marianella, presso Napoli, il 27 settembre 1696, e morì a Pagani (Salerno) il 1° agosto 1787. Compiuti in casa, come tutti i ragazzi di nobili famiglie, gli studi letterari e scientifici, nei quali ebbero la loro parte rilevante anche la pittura e la musica (è sua la canzoncina natalizia "Tu scendi dalle stelle" ), nel 1708 si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza all'università di Napoli, dove si laureò col massimo dei voti in diritto civile ed ecclesiastico appena sedicenne, con quattro anni di anticipo sull'età richiesta dalle leggi del tempo. Dopo dieci anni di memorabili successi come avvocato nel foro napoletano, a causa di una violenta delusione morale dovuta a interferenze politiche in una causa dai grandi risvolti sociali, decise di farsi prete. Ricevuta l'ordinazione sacerdotale il 21 dicembre 1726, cominciò immediatamente a svolgere il suo ministero in mezzo al popolo più abbandonato e più bisognoso di aiuti spirituali. Osservando la miseria di tante anime, non riusciva a darsi pace né si concedeva riposo. Si portava dovunque: nei paesi intorno al Vesuvio, lungo la costa amalfitana, nelle sparute e dimenticate contrade di campagna lungo gli Appennini della Puglia e della Calabria, dove il clero locale, pur numeroso, rifiutava di andare. La salvezza di quelle anime era la sua idea dominante, l'elemento catalizzatore di tutte le sue energie e delle straordinarie doti intellettuali. E per rendere la sua opera più profonda e duratura, e per giungere con la sua azione di salvezza anche dove non poteva arrivare con la voce, e per andare oltre il tempo della sua esistenza terrena ed oltre gli spazi - troppo ristretti per il suo zelo evangelico - del Regno di Napoli, fondò un istituto essenzialmente missionario e si diede, con altrettanto entusiasmo, all'apostolato della penna. Come scrittore, sant'Alfonso è popolarissimo. Pubblicò centoundici opere tra grandi e piccole. Alcune di esse hanno raggiunto centinaia di edizioni in gran parte delle lingue del mondo. Quelle di ascetica e di spiritualità si ristampano continuamente ancora oggi: Uniformità alla volontà di Dio; Modo di conversare continuamente e alla familiare con Dio; Pratica di amare Gesù Cristo; Visite al Ss. Sacramento e a Maria santissima; Meditazioni sulla Passione di Nostro Signore Gesù Cristo; Glorie di Maria; Massime eterne; Necessità della preghiera. Nel 1748 stampava la sua THEOLOGIA MORALIS, l'opera per la quale il papa Leone XIII lo definì "il più insigne e il più mite dei moralisti". Come fondatore Alfonso de Liguori sta continuando ancora oggi la sua missione di annunciatore della salvezza attraverso gli oltre 5.600 discepoli (i missionari redentoristi) in oltre 60 paesi dei cinque continenti. La Congregazione del Ss. Redentore, da lui fondata a Scala (Salerno) il 9 novembre 1732, ha lo scopo di "continuare l'esempio del nostro Salvatore Gesù Cristo in predicare alle anime più abbandonate, specialmente ai poveri, la divina parola". E si impegna a raggiungere questa finalità prima di tutto con le missioni popolari e con la predicazione degli esercizi spirituali. All'occorrenza i congregati accettano la predicazione in terre straniere, particolarmente in quelle del terzo mondo (i Redentoristi italiani hanno aperto, già da alcuni decenni, una missione in Paraguay e una in Madagascar). Anche se raramente essi si fanno carico dell'insegnamento nelle scuole e della cura di parrocchie. Nel 1762 Alfonso fu eletto vescovo di Sant'Agata dei Goti (Benevento). Ma dopo 13 anni dovette rinunciarvi a causa dell'artrite deformante. Canonizzato nel 1839, fu dichiarato dottore della Chiesa nel 1871, patrono dei confessori e dei moralisti nel 1950.
Beato Bartolo Longo
La Madonna del Rosario ha un culto molto antico; si risale all’epoca dell’istituzione dei domenicani (XII secolo), i quali furono i maggiori propagatori del culto del S. Rosario. La devozione della recita del rosario, chiamato anche ‘Salterio’, ebbe larga diffusione per la facilità con cui si poteva pregare; fu chiamato il Vangelo dei poveri, che in massima parte non sapevano leggere, perché dava il modo di poter pregare e nello stesso tempo meditare i misteri cristiani, senza la necessità di leggere un testo.
I misteri contemplati nella recita del Rosario sono ora venti, cinque gaudiosi, cinque della luce, cinque dolorosi, cinque gloriosi; per ogni mistero si recita un Padre Nostro, dieci Ave Maria e un Gloria al Padre; alla fine dei cinque misteri si conclude con la preghiera del Salve Regina.
Alla protezione della Vergine del Rosario, fu attribuita la vittoria della flotta cristiana sui turchi musulmani, avvenuta a Lepanto nel 1571. A seguito di ciò, il papa s. Pio V (1504-1572), istituì dal 1572 la festa del Santo Rosario, alla prima domenica di ottobre, che poi dal 1913 è stata spostata al 7 ottobre.
Il culto per il S. Rosario ebbe un’ulteriore diffusione dopo le apparizioni di Lourdes del 1858, dove la Vergine raccomandò la pratica di questa devozione. La Madonna del Rosario, ebbe nei secoli una vasta gamma di raffigurazioni artistiche, quadri, affreschi, statue, di solito seduta in trono con il Bambino in braccio, in atto di mostrare o dare la corona del Rosario; la più conosciuta è quella che oltre quanto detto, si vede la corona data a S. Caterina da Siena e a s. Domenico Guzman, inginocchiati ai lati del trono.
Ed è uno di questi quadri che ha dato vita alla devozione tutta mariana di Pompei; a questo punto bisogna parlare dell’iniziatore di questo culto, il beato Bartolo Longo.
L’avvocato Bartolo Longo nacque a Latiano (Brindisi) il 10 febbraio 1841, di temperamento esuberante, da giovane si dedicò al ballo, alla scherma ed alla musica; intraprese gli studi superiori in forma privata a Lecce; dopo l’Unità d’Italia, nel 1863, si iscrisse alla Facoltà di Giurisprudenza nell’Università di Napoli.
Fu conquistato dallo spirito anticlericale che in quegli anni dominava nell’Ateneo napoletano, al punto da partecipare a manifestazioni contro il clero e il papa. Dubbioso sulla religione, si lasciò attrarre dallo spiritismo, allora molto praticato a Napoli, fino a diventarne un sacerdote che celebrava i riti imitando quelli della Chiesa.
Per sua buona sorte era legato da una solida amicizia con il prof. Vincenzo Pepe, suo compaesano e uomo religiosissimo, il quale saputo del suo tormento interiore lo avvicinò, convincendolo ad avere contatti con il dotto domenicano padre Radente, che con i suoi consigli e la sua dottrina, lo ricondusse alla fede cattolica e alle pratiche religiose.
Intanto il 12 dicembre 1864 si era laureato in Diritto, ritornò al paese natio e prese a dedicarsi ad una vita piena di carità e opere assistenziali; rinunziò al matrimonio, ricordando le parole del venerabile Emanuele Ribera redentorista: “Il Signore vuole da te grandi cose, sei destinato a compiere un’alta missione”.
Superati gli indugi, abbandonò la professione di avvocato, facendo voto di castità e ritornò a Napoli per dedicarsi in un campo più vasto alle opere di beneficenza; qui incontrò il beato padre Ludovico da Casoria, francescano, e la beata Caterina Volpicelli, due figure eminenti della santità cattolica dell’Ottocento napoletano, entrambi fondatori di Opere assistenziali e Congregazioni religiose, i quali lo consigliarono e indirizzarono ad una santa amicizia con la contessa Marianna De Fusco.
Da qui il beato Bartolo Longo ebbe una svolta decisiva per la sua vita, divenne compagno inseparabile nelle opere caritatevoli della contessa, che era vedova, inoltre divenne istitutore dei suoi figli e amministratore dei vasti beni. La loro convivenza diede adito a parecchi pettegolezzi, pur avendo il beneplacito dell’arcivescovo di Napoli cardinale Guglielmo Sanfelice; dopo un’udienza accordata loro da papa Leone XIII, il quale sollecitava una soluzione confacente, decisero di sposarsi nell’aprile 1885, con il proposito però di vivere come buoni amici, in amore fraterno, come avevano fatto fino allora.
La contessa De Fusco era proprietaria di terreni ed abitazioni nel territorio di Pompei e Bartolo Longo, come amministratore si recava spesso nella Valle; vedendo l’ignoranza religiosa in cui vivevano i contadini sparsi nella campagne, prese ad insegnare loro il catechismo, a pregare e specialmente a recitare il rosario.
Una pia suora, Maria Concetta de Litala, gli donò una vecchia tela raffigurante la Madonna del Rosario, molto rovinata; restauratala alla meglio, Bartolo Longo decise di portarla nella Valle di Pompei e lui stesso racconta, che nel tratto finale, poggiò il quadro per trasportarlo, su un carro, che faceva la spola dalla periferia della città alla campagna, trasportando letame, che allora veniva usato come concime nei campi.
Il 13 febbraio 1876, il quadro venne esposto nella piccola chiesetta parrocchiale, da quel giorno la Madonna elargì con abbondanza grazie e miracoli; la folla di pellegrini e devoti aumentò a tal punto che si rendeva necessario costruire una chiesa più grande.
Bartolo Longo su consiglio anche del vescovo di Nola, Formisano che era l’Ordinario del luogo, iniziò il 9 maggio 1876 la costruzione del tempio che terminò nel 1887. Il quadro della Madonna, dopo essere stato opportunamente restaurato, venne sistemato su un trono splendido; l’immagine poi verrà anche incoronata con un diadema d’oro, ornato da più di 700 pietre preziose e benedetto da papa Leone XIII.
La costruzione venne finanziata da innumerevoli offerte di denaro, proveniente da tante Associazioni del Rosario, sparse in tutta Italia, in breve divenne centro di grande spiritualità come lo è tuttora, fu elevata al grado di Santuario, centro del Sacramento della Confessione di milioni di fedeli, che si accostano alla santa Comunione in tutto l’anno.
Il beato Bartolo Longo istituì per le opere sociali, un orfanotrofio femminile, affidandone la cura alle suore Domenicane Figlie del Rosario di Pompei, da lui fondate; ancora realizzò l’Istituto dei Figli dei Carcerati in controtendenza alle teorie di Lombroso, secondo cui i figli dei criminali sono per istinto destinati a delinquere; chiamò a dirigerli i Fratelli delle Scuole Cristiane.
Fondò nel 1884 il periodico “Il Rosario e la Nuova Pompei” che ancora oggi si stampa in centinaia di migliaia di copie, diffuse in tutto il mondo; la stampa era affidata alla tipografia da lui fondata per dare un avvenire ai suoi orfanelli; altre opere annesse sono asili, scuole, ospizi per anziani, ospedale, laboratori, Casa del pellegrino.
Il santuario fu ampliato nel 1933-39, con la costruzione di un massiccio campanile alto 80 metri, un poco isolato dal tempio, con 11 campane di cui la più grande è di 50 quintali, con ascensore interno per la visita panoramica fino alla cima, dove c’è una grande croce luminosa di sette metri, enormi statue in bronzo, alte 5-6 metri ciascuna, sono esterne al campanile posizionate a vari livelli di altezza.
Nel 1893 Bartolo Longo offrì al papa Leone XIII la proprietà del Santuario e di tutte le opere pompeiane, qualche anno più tardi rinunziò anche all’amministrazione che il papa gli aveva rimasta; l’interno è a croce latina, tutta lavorata in marmo, ori, mosaici dorati, quadri ottocenteschi, con immensa cripta, il trono della Vergine circondato da colonne, sulla crociera vi è l’enorme cupola di 57 metri tutta affrescata.
Bartolo Longo in un pubblico discorso, lasciò le onorificenze ricevute, ai suoi orfani e la raccomandazione di essere sepolto nel santuario vicino alla sua Madonna; morì il 5 ottobre del 1926 e come suo desiderio fu sepolto nella cripta, in cui riposa anche la contessa De Fusco.
Aveva trovato una zona paludosa e malsana, a causa dello straripamento del vicino fiume Sarno, abbandonata praticamente dal 1659, nonostante l’antica storia di Pompei, città di più di 20.000 abitanti nell’epoca romana, distrutta dall’eruzione del Vesuvio del 24 agosto 79 d.C.
Alla sua morte lasciò una città ripopolata, salubre, tutta ruotante attorno al Santuario e alle sue numerose Opere, a cui poi si affiancò il turismo per i ritrovati scavi della città sepolta.
È sua l’iniziativa della Supplica, da lui compilata, alla Madonna del Rosario di Pompei che si recita solennemente e con gran concorso di fedeli, l’8 maggio e la prima domenica di ottobre.
Bartolo Longo è stato beatificato il 26 ottobre 1980 da papa Giovanni Paolo II. Il santuario è basilica pontificia e come Loreto è sede di un vescovo (prelatura) con giurisdizione su Pompei. Papa Giovanni Paolo II vi si è recato in pellegrinaggio all’inizio del suo pontificato, nel 1979 e una seconda volta nel compimento dei suoi 25 anni di pontificato nel 2003, a concludere ai piedi di Maria l’anno del Rosario da lui indetto.
Beato Vincenzo Romano
Nacque a Torre del Greco (NA) il 3 giugno 1751, città marinara posta al centro del Golfo di Napoli, alle falde del Vesuvio, celebre per la sviluppatissima arte del corallo e per il gran numero di addetti alla navigazione.
Parroco per 33 anni (dal 1799 al 1831) dell’unica parrocchia che abbracciava l’intera popolazione di allora, la chiesa di Santa Croce oggi Basilica Pontificia. Studiò nel seminario diocesano di Napoli, ricevendo gli insegnamenti anche di s. Alfonso Maria de’ Liguori.
Ordinato sacerdote il 10 giugno 1775, svolse il suo apostolato per 20 anni nella natia Torre del Greco, dedicandosi a tutte le attività religiose e sociali che questo popoloso paese, posto all’estremo confine della Diocesi napoletana richiedeva, era tanto il suo zelo che meritò l’appellativo di “celebre faticatore”, assisté in particolare i tanti marinai torresi che navigavano per il mondo e le loro famiglie sempre in trepida attesa del loro ritorno non sempre certo.
Il 15 giugno 1794 una terribile eruzione del Vesuvio distrusse quasi completamente la città, compresa la chiesa di S. Croce, egli subito si dedicò alla difficile opera di ricostruzione materiale e morale sia della città che della chiesa, che volle più grande e più sicura.
Il “ministero della parola” e il “Vangelo della carità” sono le basi della sua attività pastorale, aveva una predicazione fluente, non ampollosa, facile a capirsi e i fedeli accorrevano ma soprattutto seguivano e mettevano in pratica ciò che ascoltavano.
La generosa gente di Torre del Greco ha sempre risposto positivamente alle sollecitazioni dei loro parroci, oggi come allora, ed è stata sempre un serbatoio continuo di vocazioni sacerdotali.
Sollecitò la recita del s. Rosario serale, scrisse un libretto per poter seguire meglio la celebrazione della s. Messa.. Alla ricerca di sempre nuovi metodi per avvicinare i fedeli, egli introduce a Torre la cosiddetta “sciabica”, una strategia missionaria tesa ad avvicinare con il crocifisso in mano, capannelli di personeo singoli passanti, improvvisando sul momento una predicazione, salvo poi ad accompagnarli se consenzienti alla più vicina chiesa od oratorio per pregare insieme.
Tiene scuola per i bambini, divisi in classi, nella sua casa. Si fa mediatore dei contrasti sorti fra gli armatori delle ‘coralline’ ed i marinai che affrontano i rischi e la fatica della pesca del corallo.
Gira con infaticabile zelo a sorprendere covi di delinquenti per smorzare i loro loschi intenti malavitosi. Cerca di riscattare i torresi caduti in schiavitù dei corsari barbareschi.
Ebbe la soddisfazione di vedere ultimata nel 1827, la costruzione della maestosa basilica, che ha ricevuto la visita di Pio IX nel 1849 e di Giovanni Paolo II nel 1990.
Morì santamente il 20 dicembre 1831, faro di esempio sacerdotale e pastorale per i parroci di Napoli e d’Italia. Il suo corpo riposa in una artistica urna nella stessa Basilica di s. Croce.
E’ stato beatificato il 17 novembre 1963 da Paolo VI.
La data di culto per la Chiesa universale è il 20 dicembre, mentre a Napoli e a Torre del Greco viene ricordato il 29 novembre.
Parroco per 33 anni (dal 1799 al 1831) dell’unica parrocchia che abbracciava l’intera popolazione di allora, la chiesa di Santa Croce oggi Basilica Pontificia. Studiò nel seminario diocesano di Napoli, ricevendo gli insegnamenti anche di s. Alfonso Maria de’ Liguori.
Ordinato sacerdote il 10 giugno 1775, svolse il suo apostolato per 20 anni nella natia Torre del Greco, dedicandosi a tutte le attività religiose e sociali che questo popoloso paese, posto all’estremo confine della Diocesi napoletana richiedeva, era tanto il suo zelo che meritò l’appellativo di “celebre faticatore”, assisté in particolare i tanti marinai torresi che navigavano per il mondo e le loro famiglie sempre in trepida attesa del loro ritorno non sempre certo.
Il 15 giugno 1794 una terribile eruzione del Vesuvio distrusse quasi completamente la città, compresa la chiesa di S. Croce, egli subito si dedicò alla difficile opera di ricostruzione materiale e morale sia della città che della chiesa, che volle più grande e più sicura.
Il “ministero della parola” e il “Vangelo della carità” sono le basi della sua attività pastorale, aveva una predicazione fluente, non ampollosa, facile a capirsi e i fedeli accorrevano ma soprattutto seguivano e mettevano in pratica ciò che ascoltavano.
La generosa gente di Torre del Greco ha sempre risposto positivamente alle sollecitazioni dei loro parroci, oggi come allora, ed è stata sempre un serbatoio continuo di vocazioni sacerdotali.
Sollecitò la recita del s. Rosario serale, scrisse un libretto per poter seguire meglio la celebrazione della s. Messa.. Alla ricerca di sempre nuovi metodi per avvicinare i fedeli, egli introduce a Torre la cosiddetta “sciabica”, una strategia missionaria tesa ad avvicinare con il crocifisso in mano, capannelli di personeo singoli passanti, improvvisando sul momento una predicazione, salvo poi ad accompagnarli se consenzienti alla più vicina chiesa od oratorio per pregare insieme.
Tiene scuola per i bambini, divisi in classi, nella sua casa. Si fa mediatore dei contrasti sorti fra gli armatori delle ‘coralline’ ed i marinai che affrontano i rischi e la fatica della pesca del corallo.
Gira con infaticabile zelo a sorprendere covi di delinquenti per smorzare i loro loschi intenti malavitosi. Cerca di riscattare i torresi caduti in schiavitù dei corsari barbareschi.
Ebbe la soddisfazione di vedere ultimata nel 1827, la costruzione della maestosa basilica, che ha ricevuto la visita di Pio IX nel 1849 e di Giovanni Paolo II nel 1990.
Morì santamente il 20 dicembre 1831, faro di esempio sacerdotale e pastorale per i parroci di Napoli e d’Italia. Il suo corpo riposa in una artistica urna nella stessa Basilica di s. Croce.
E’ stato beatificato il 17 novembre 1963 da Paolo VI.
La data di culto per la Chiesa universale è il 20 dicembre, mentre a Napoli e a Torre del Greco viene ricordato il 29 novembre.
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